Cartoline da un altro mondo 2 Una via crucis nella savana 14 aprile, Venerdì Santo. L’appuntamento è alle sette, davanti alla parish hall che ora funge da chiesa, in attesa che terminino i lavori di quella nuova e più grande voluta da Damiano per celebrare i quarant’anni della missione. Il sole dell’alba allunga le nostre ombre, mentre una luce morbida e calda accende nell’aria riflessi dorati. Siamo una decina tra cui un karimojong che porta in spalla una croce. Damiano brandisce un megafono e inizia a recitare preghiere in lingua locale. Mi lascio cullare dalla cantilena delle parole. Non ne capisco una che è una, ma le pause e la cadenza delle frasi mi richiamano alla mente preghiere conosciute, che d’improvviso riemergono dalla memoria di un bambino che alla via crucis del Venerdì Santo ci andava ad accompagnare zia Nene. E così, in questa alba a Matany, mi ricordo di lei e di Pasque lontane, echi di un passato di volti e gesti e parole che ancora nutrono il mio cuore. Buongiorno zia Nene e buona Pasqua, ovunque sia il tuo spirito. Grazie anche per quelle via crucis ; sono diventato un uomo, ma è quel bambino che oggi ti porta con sé. Iniziamo questo viaggio di preghiera. Nessuno parla, ognuno “sta solo sulla terra” e forse sta cercando in sé qualcosa che almeno assomigli a un significato per ciò che sta vivendo. Ci sono anche Sara ed Erik che porta sul capo un bel cappello di paglia a larghe tese: mi ricorda quello che aveva in testa il falsario Degas (Dustin Hoffman) in “Papillon”. Attraversiamo il villaggio percorrendo la sua sola via ai cui lati i bottegai hanno già messo in bella mostra le povere mercanzie, ma da un anno all’altro mi sembra che la qualità sia migliorata come la cura nel presentarle. Qualcosa sta cambiando? La folla che ci segue si ingrossa. Penso alle parole delle Scritture, a Cristo, la cui croce un giovane karimojong sta portando là davanti a noi, e che richiamava dietro di sé le genti al solo Suo passare. Sostiamo per la lettura delle Stazioni. A Damiano si alternano catechisti e sulle loro labbra l’asprezza della lingua locale sembra addolcirsi nella preghiera. Poi entriamo nella savana. La terra è indurita in un tavolato liscio, scolpito da fossi e piccoli wadi scavati dalle prime piogge. La vegetazione appare di un verde vivace, come se tirasse un sospiro di sollievo dopo la lunga stagione secca. Avanziamo tra arbusti spinosi che sembrano rotoli di filo spinato e macchie di alberi che distendono le loro braccia verdi a formare ombrelli di frescura. Il sole è già alto e incomincia a fare caldo. Il passo è spedito, da Karimojong. Non che ne ricordi molte e soprattutto di recenti, ma una via crucis così “bersagliera” proprio non mi viene in mente. Sembra che ad ogni passo si aggiunga nuova gente. Spuntano dal nulla di piste che si perdono chissà dove, da boscaglie e da villaggi che all’improvviso si materializzano dietro palizzate mimetizzate con la vegetazione. Arrivano in gruppi, portandosi dietro anche greggi e vacche, tutti vestiti con i segni della festa, persino quelli che indossano solo la nuda povertà cui hanno aggiunto un niente per essere un po’ più di niente, almeno per un giorno. Damiano sembra un capo biblico alla guida della sua tribù verso il compimento del viaggio che è stato scritto e al suo gesto questa gente si arresta come un sol uomo; nella vastità della savana si inginocchia e piega il capo sotto il manto azzurro di un cielo che a me, piccolo e confuso randagio, appare troppo grande e lontano. Quando giungiamo ai piedi del Monte di Matany, che altro non è se non una collinetta vulcanica, ma dalla cui cima lo sguardo spazia sulla savana a perdita d’occhio, ci fermiamo all’ombra dei rami di un gigantesco albero. La folla cerca frescura, ma anche la protezione di questo figlio della terra sotto il quale da tempi remoti, come sotto l’albero di ogni villaggio, si radunano gli anziani e si decide della vita della comunità. Il giovane che ha portato la croce viene ora simbolicamente crocefisso e coronato di spine. Attorno a lui si recitano scene della Passione e si mimano i peccati che più segnano la quotidianità di queste popolazioni: violenza, furto, adulterio, ubriachezza. Gli attori hanno una spontaneità e una mimica incredibili e la loro interpretazione solleva spesso risate, grida di consenso o di condanna. Poi Damiano indica la via dell’ascesa. La folla si apre, si sparge come coriandoli colorati sulle pietraie di roccia lavica che portano alla cima dove ci attende una croce metallica che splende contro il cielo. Salgo con un gruppo di piccoli karimojong che mi sfidano in un gioco di destrezza ad arrampicarmi tra arbusti spinosi e alberi con cortecce rugose come la pelle di un vecchio. Arrivo in cima e senza il fiatone, provo un segreto compiacimento. I miei piccoli amici mi sorridono divertiti. La croce è lì. Ci aspettava, aspetta sempre, aspetta tutti. Damiano prega ad alta voce, cento voci gli rispondono e subito si perdono nel vento leggero e fresco che le porta lontano, in cielo, sulla savana, verso i monti all’orizzonte. Alzo gli occhi verso la croce e il cielo mi sembra meno lontano. Agostino Gaglio
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